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Eredità di Dante: la lingua e i modi di dire nati dalla Divina Commedia

Il 25 marzo del 1300 segna l’inizio del celebre viaggio di Dante Alighieri attraverso i tre regni dell’aldilà, un’esperienza che viene comunemente associata al suo capolavoro, la Divina Commedia. Questo giorno è diventato simbolico per l’Italia, che lo dedica al suo illustre poeta, nonostante le difficoltà e le limitazioni imposte da eventi recenti come la pandemia di COVID-19, che hanno impedito celebrazioni pubbliche.

La giornata è un momento di riflessione sull’eredità linguistica e culturale lasciata da Dante. Un esempio emblematico di come il suo lavoro sia penetrato nel linguaggio comune è l’espressione “stai fresco!”, che appare per la prima volta nel XXXII canto dell’Inferno. In questo canto, il poeta descrive i dannati intrappolati nel lago ghiacciato di Cocito, scrivendo: “là dove i peccatori stanno freschi”, evidenziando così il destino eterno dei peccatori.

Dante è anche la fonte di numerosi altri modi di dire ancora in uso oggi. Per esempio, per esprimere l’idea che qualcosa non ci colpisce o ci riguarda, si può dire “non mi tange”, una frase pronunciata da Beatrice nel II canto dell’Inferno. Inoltre, nel XXXIII canto, il poeta si riferisce a Pisa con l’espressione “bel Paese”, oggi sinonimo di Italia.

Infine, nel V canto, Dante racconta la storia d’amore tra Paolo e Francesca, descrivendo come la loro passione sia sbocciata mentre leggevano il racconto del bacio tra Lancillotto e Ginevra. Da qui deriva l’ormai celebre espressione “galeotto fu”, che utilizziamo per indicare che la responsabilità di un evento è legata a un fattore esterno.

Queste frasi e modi di dire, emersi dal genio di Dante, non solo arricchiscono la lingua italiana, ma attestano anche la sua influenza duratura nella cultura e nella letteratura, mantenendo viva la sua figura e il suo messaggio attraverso i secoli.

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